martedì 28 marzo 2017

Paolo Uccello - La Battaglia di San Romano

Il suo vero nome era Paolo di Dono, ma lo chiamarono Paolo Uccello a causa del grande numero di uccelli e animali dipinti che riempivano la sua casa, visto che era troppo povero per nutrire e possedere animali reali. A Padova si dice che eseguì un affresco dei quattro elementi e all'aria attribuì l'immagine del camaleonte ma non avendone mai visto uno, lo rappresentò con l'aspetto di un cammello panciuto con la bocca spalancata.





Uccello non si preoccupava affatto della realtà delle cose, ma della loro molteplicità e dell'infinito delle linee. Uccello versava tutte le forme nel crogiolo delle forme. Le riuniva, le componeva insieme, le faceva fondere, in modo da ottenere una trasmutazione nella forma più semplice dalla quale dipendevano tutte le altre.

Visse come un alchimista nel fondo della sua casetta, credendo di poter mutare tutte le linee in un solo aspetto ideale. Intorno a lui vivevano Ghiberti, Della Robbia, Brunelleschi, Donatello, tutti nella stessa maniera orgogliosi e padroni della propria arte, dileggiando il povero Uccello per la sua follia della prospettiva, guardando alla sua casa piena di ragni e vuota di cibo.

Così viveva Uccello, e la sua testa pensosa era avviluppata nella sua cappa; senza mai accorgersi di quello che beveva o mangiava, del tutto simile ad un eremita. Un giorno scorse nel prato una fanciulla che rideva. Il suo nome era Selvaggia, ed essa sorrise ad Uccello che notò la flessione del suo sorriso, e che vide tutte le piccole linee delle sue ciglia, tutti i cerchi delle sue pupille, la curva delle sue palpebre, gli intrecci dei sui capelli.

Selvaggia non sapeva nulla di tutto questo, semplicemente prese la mano di Uccello e lo amò. Gli restava accoccolata tutto il giorno, davanti alla muraglia su cui Uccello tracciava le sue forme universali. La sera, quando Brunelleschi e Manetti arrivavano per studiare con Uccello, essa si addormentava nel cerchio d'ombra che si allargava sotto la lampada, e alla mattina si svegliava e si rallegrava di trovarsi circondata da uccelli dipinti e da bestie colorate.

Uccello disegnò le sue labbra i suoi occhi, i suoi capelli e le sue mani, e fissò tutte le attitudini del suo corpo, ma non fece mai il suo ritratto come gli altri pittori innamorati poichè Uccello non consceva la gioia di limitarsi all'individuo. Anche le forme di Selvaggia furono gettate dentro al crogiolo, insieme con tutti i movimenti delle sue bestie, con tutte le linee delle sue piante, con tutti i raggi della luce e gli ondeggiamenti del vapore terrestre.

Senza ricordarsi della presenza di Selvaggia, Uccello rimaneva eternamente chino sul crogiolo delle sue forme. Non vi era cibo nella casa di Uccello, e Selvaggia non osava dirlo né a Donatello né a Brunelleschi, né ad altri. Tacque e morì. Uccello rappresentò l'irrigidimento del suo corpo, l'unione delle sue piccole mani magre e la linea dei suoi poveri occhi chiusi, senza sapere che essa era morta come non aveva saputo che essa era stata viva. Ma Uccello gettò queste nuove forme in mezzo a tutte quelle che aveva già raccolto.

Diventò vecchio e più nessuno comprendeva i suoi quadri. Si vedeva soltanto una confusione di curve. Nè la terra, né gli animali né gli uomini erano più riconoscibili. Da lunghi anni lavorava alla sua opera suprema che nascondeva a sguardi indiscreti. Doveva racchiudere tutte le sue ricerche in quanto immagine di tutta la sua concezione. Il soggetto era un San Tommaso incredulo davanti alla piaga di Cristo. Uccello terminò il quadro ad 80 anni. Fece allora venire Donatello e lo scoprì religiosamente davanti a lui. E Donatello gridò "O Paolo, ricopri il tuo quadro".

Uccello interrogò il grande scultore, che però non aggiunse altro, e in questa maniera seppe di aver compiuto il miracolo. Ma Donatello non aveva visto che un guazzabuglio di linee. Qualche anno dopo Uccello fu trovato morto di stenti nel suo giaciglio. Nella sua mano, strettamente chiusa, egli teneva un piccolo rotolo di pergamena ricoperto di un fitto intreccio di linee che andavano dal centro alla circonferenza e che tornavano dalla circonferenza al centro. Il suo viso era risplendente di rughe. I suoi occhi erano spalancati sul mistero rivelato.

Testo tratto da Marcel Schwob

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